Vite mosaici ferite

Stefano CALVILLO



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Veniamo dal Ghana, dal Mali, Sudan, Nigeria, Costa d'Avorio, Etiopia e Somalia. Siamo tutti fuggiti "a forza" dalla Libia. Siamo uomini e donne ed anche minori sbarcati pochi mesi fa a Lampedusa e ora aspettiamo di vedere riconosciuto il nostro status di rifugiati. Viviamo nel timore di essere ricacciati indietro verso gli incubi da cui siamo scappati.

Si stima che siano arrivati in Italia circa 60.000 profughi dall'inizio dell'anno e di certo la politica italiana non è orientata a dare a tutti loro un'autorizzazione e restare nel nostro Paese. Con numeri così elevati per i nostri standard (ma non già per quelli tedesco e francese abituati a cifre ben più elevate) non sarà facile per nessuno per quanto neutrale ed esperto vedere e riconoscere in ogni singolo profugo le ragioni della fuga dal Paese di provenienza ed il diritto ad un approdo e ad una permanenza sicura in Italia. Nei grandi numeri è facile perdere di vista i diritti e lo status giuridico dei singoli. Migliore fortuna avrebbero potuto avere quegli stessi profughi se fossero arrivati in Italia "spalmati" in un periodo di tempo più lungo, in tre anni piuttosto che in 9 mesi e in un altro periodo economico-politico. Ma i profughi raramente hanno fortuna.
E dunque riuscire a "superare" l'intervista in Commissione non sarà cosa semplice.
Non lo è mai: raccontare ad un gruppo di estranei in pochissimo tempo tutto il peggio che la vita ti ha riservato, le torture, la prigionia, gli abusi, i lutti, le umiliazioni, il terrore, la vergogna. E magari mostrare cicatrici che vorresti cancellare e ricordi che vorresti rimuovere. Sono costretti a raccontare l'indicibile e a ricordare l'irripetibile.

Non ci volevano nel nostro Paese. Ci hanno feriti con pistole, coltelli, cocci di bottiglia. Hanno violentato le nostre compagne e ucciso i nostri parenti. Sono entrati nelle nostre case e hanno distrutto ogni cosa. Ci hanno derubato di tutto. Anche dei nostri figli. Ci hanno braccati e imprigionati. Picchiati, frustati, appesi per le braccia e per i piedi. Siamo stati torturati, minacciati e insultati in ogni modo. Per questioni etniche, religiose, sociali. Siamo sopravvissuti. Al dolore, alle perdite, al distacco, alle torture. Siamo scappati come potevamo, a piedi, nascosti su camion. Siamo stati abbandonati nel deserto. Siamo partiti in 100 ed arrivati in 10. E poi di nuovo braccati, imprigionati e picchiati, anche in Libia che i neri non li vuole. Sembra che nessuno ci voglia. Ma siamo sopravvisuti, ancora una volta. Abbiamo trovato un lavoro e continuato in Libia questa vita che ci è capitata in sorte. Ma poi è arrivata la guerra. Una guerra non nostra in un Paese che mal ci sopportava. Mentre le bombe scoppiavano uomini in divisa hanno fatto irruzione nelle nostre case, ci hanno picchiati, derubati di tutto. E poi siamo stati caricati a forza su una barca. Pochi metri di legno marcio. Incastrati l'uno sull'altro, a centinaia. Non sentivamo più le gambe. Notti e giorni nel mare, nel buio, nel freddo, senza cibo né acqua. Non tutti sopravvivono. Non sappiamo neppure dove siamo destinati. Italia, scopriamo poi. Ed ora siamo qui, ancora una volta vivi. Nella speranza che nessuno questa volta ci respinga. In attesa di una vita vera.

Alessandra Ballerini

 
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