La Wolfsoniana a la Storia in Piazza


fino al 26 aprile 2015, Spazio 46r


A cura di Matteo Fochessati

La più incisiva e ricorrente icona dell’epoca capitalistica, fra Otto e Novecento, fu rappresentata dalle molteplici raffigurazioni della grande industria siderurgica e meccanica. Soppiantando le tradizionali effigi dei luoghi del lavoro, le immagini degli stabilimenti industriali, avvolti dal fumo delle ciminiere, e quelle delle masse di operai - impegnati in un intenso sforzo produttivo che contribuì all’ascesa di una nuova rampante classe imprenditoriale - trovarono in quest’epoca una loro specifica collocazione nel campo delle arti figurative attraverso un duplice registro linguistico: da un lato una descrizione pittorica del lavoro nelle fabbriche, concorrenziale per la sua impostazione realistica alla resa oggettiva della documentazione fotografica; dall’altro una tendenza espressiva volta a rielaborare in chiave allegorica la rappresentazione degli scenari industriali, grazie alla moderna trasposizione di modelli iconografici desunti dalla classicità.
Nella mostra La Wolfsoniana per la Storia in piazza si presentano alcuni esempi paradigmatici di queste due varianti espressive. L’arcaica simbologia che impronta il bozzetto Industria di Adolfo Coppedè contrasta infatti decisamente con lo spirito modernista degli studi architettonici di Adolfo Ravinetti per le Grandi Acciaierie Ansaldo, nonostante la tensione espressiva di tali progetti mostri ancora una tendenza a coniugare con persistenti echi stilistici d’impianto classico le esigenze funzionali dei nuovi stabilimenti in cemento armato. Assunto dalla direzione dell’Ansaldo nel 1915 (in concomitanza con l’entrata in guerra dell’Italia) e incaricato della progettazione di diversi edifici per la fabbricazione di mezzi e materiali bellici, Ravinetti fu comunque autore di un importante piano logistico e architettonico di sviluppo industriale, le cui fasi di lavorazione dell’acciaio per la produzione di cannoni e di mezzi di trasporto marini e terrestri appaiono documentate nei suggestivi acquarelli dell’architetto Giovanni Greppi, raccolti in un album nel 1919. All’intensa rappresentazione realista di tali immagini si contrappongono in mostra due raffigurazioni della classe operaia di matrice simbolista: il manifesto di Plinio Nomellini per il quotidiano socialista “Il Lavoro” (1903) e i bozzetti di Virgilio Retrosi per la Confederazione Italiana dei Lavoratori, sindacato di ispirazione cristiana attivo tra il 1918 e il 1926. Un diretto confronto tra il rigore analitico della pittura realista e la retorica impostazione allegorica delle arti di propaganda scaturisce, per contro, dall’accostamento tra un paesaggio industriale, raffigurato da Aurelio Craffonara nel contesto della campagna piemontese, e una veduta metropolitana del ponente genovese, racchiusa nel dipinto di Giuseppe Mazzei da una cornice di fasci littori istoriata da motti e citazioni di Virgilio e Mussolini. Il tema del cavallo imbizzarrito, come dinamica espressione iconografica dello spirito del progresso, sembra invece evocare nello studio di Galileo Chini, Il lavoro delle acciaierie, l’esaltazione futurista per la modernità del celebre dipinto di Umberto Boccioni La città che sale; mentre l’austera icona femminile che nel pastello di Mazzei sovrintende il varo della motonave Roma, nei cantieri di Sestri Ponente, è qui presentata in abbinamento con la prosaica raffigurazione del cantiere navale di Giovanni Battista Crema. Nelle ultime opere, cronologicamente più tarde, si propongono infine tre differenti vedute di stabilimenti industriali. E se nei bozzetti di Filippo Romoli emergono i contrasti di scala determinati dal gigantismo di tali strutture, nello studio del Padiglione Terni, realizzato per un evento fieristico, è messa invece in evidenza la stridente disomogeneità tra il moderno carattere dell’architettura e la vetusta foggia degli abiti indossati dal pubblico femminile.